L’abitazione rurale e le condizioni per l’esenzione IMU prima casa

Ci si è chiesti in dottrina se l’abitazione rurale, accatastata in categoria A/3, di proprietà di una società semplice agricola destinata ad uso abitativo del socio avente la qualifica di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo principale, possa o meno essere considerata abitazione principale ai fini dell’applicazione dell’esenzione IMU ex articolo 9 del d. lgs 18 maggio 2001 n. 228.

Il comma 3 bis dell’articolo 9 del decreto legge 557/1993, richiamato dall’articolo 13 del decreto legge 201/2011, stabilisce che per fruire anche dell’esenzione Imu il carattere di ruralità va riconosciuto alle costruzioni strumentali necessarie allo svolgimento dell’attività agricola; la norma fornisce un elenco, non esaustivo, delle destinazioni degli immobili idonee a definire la ruralità dell’immobile.

Per quanto riguarda le abitazioni rurali,  la norma non prevede invece alcuna causa di esenzione e sotto questo profilo il dato normativo è differente dall’articolo 1 del decreto legge 102/2013 che aveva previsto l’esclusione dalla prima rata Imu 2013 per tutti i fabbricati rurali e non solo per quelli strumentali. Ne consegue che, relativamente alle abitazioni, nelle corti agricole si potranno avere queste situazioni:

  • l’abitazione principale del/dei titolari dell’impresa agricola per cui si usufruisce dell’esenzione prevista per la prima casa (purché non di lusso) è esente da Imu;
  • per le abitazioni adibite a prima casa dai figli o genitori del l’imprenditore agricolo proprietario, se il Comune ha assunto la relativa delibera di assimilazione, scatta l’esclusione da Imu;
  • per le abitazioni dei dipendenti agricoli con più di 100 giornate lavorative annue si può fruire dell’esenzione in quanto considerati fabbricati rurali strumentali come previsto dal comma 3 bis dell’articolo 9 del decreto legge 557/93;
  • abitazioni che non rientrano nelle precedenti casistiche per cui si dovrà assolvere l’Imu con le modalità ordinarie poiché non rientranti in alcuna agevolazione (Alessio Foligno)

Ai sensi dell’art. 9 del D. Lgs. 228/2001,

Ai soci delle società di persone esercenti attività agricole, in possesso della qualifica di coltivatore diretto o di imprenditore agricolo a titolo principale, continuano ad essere riconosciuti e si applicano i diritti e le agevolazioni tributarie e creditizie stabiliti dalla normativa vigente a favore delle persone fisiche in possesso delle predette qualifiche. I predetti soggetti mantengono la qualifica previdenziale e, ai fini del raggiungimento, da parte del socio, del fabbisogno lavorativo prescritto, si computa anche l’apporto delle unità attive iscritte nel rispettivo nucleo familiare

Legittima la gara unica per la scelta del socio privato e per l’affidamento di un servizio pubblico locale

Il Comune di Teramo ha svolto una gara per la scelta del socio privato partner di una società mista alla quale affidare la gestione del servizio  di igiene ambientale, nonché dei servizi cimiteriali, segnaletica stradale, manutenzione aree verdi e verifica impianti termici.

Un operatore del settore ha impugnato il Bando di gara per violazione della normativa comunitaria sulla libera concorrenza poiché con la stessa gara, senza alcuna motivazione, l’Ente ha inteso scegliere il socio privato ed affidare alla società mista la gestione dei servizi.

Il TAR ABRUZZO, con la sentenza n. 152/2017, SEZ. I – ha ritenuto in primo luogo che, ratione tempori, non trova applicazione la disposizione dell’art. 5, c. 1, del d.lgs n.175/2016, poiché l’obbligo di motivare la scelta organizzativa non inerisce al Bando, bensì al provvedimento “A MONTE” con cui il Comune decida il modello di gestione pel partenariato pubblico privato.

In secondo luogo, è da ritenere conforme ai principi accolti in giurisprudenza, la scelta del SOCIO OPERATIVO per l’affidamento dei servizi pubblici locali ad una società mista che risponda ai requisiti previsti dall’articolo 17, commi 1 e  3 del d.lgs n.175/2016 e cioè:

  • che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento e gara per la scelta del socio, che viene qualificato come “SOCIO INDUSTRIALE ED OPERATIVO”;
  • che per il rinnovo della selezione alla scadenza del periodo di affidamento sia prevista altra apposita gara, onde evitare che il socio divenga “SOCIO STABILE”, in modo che lo stesso debba uscire (con liquidazione della sua posizione) nel caso in cui all’esito della nuova gara lo stesso non risulti più aggiudicatario.

Ad avviso del TAR, nella fattispecie in esame si è verificata tale sostanziale corrispondenza tra i servizi pubblici locali oggetto della procedura ad evidenza pubblica ed i servizi da affidare alla società mista.

Né è  stata ritenuta accoglibile da parte del TAR la censura circa la mancata possibilità di utilizzo dell’avvalimento nella procedura di gara, in quanto in base alle disposizioni dei decreti legislativi nn. 80 e 50/2016 che riguardano tale istituto, l’avvalimento non è annoverabile tra quelli obbligatori, trattandosi di UN ISTITUTO CHE SOCCORRE ALLA CARENZA DEI REQUISITI TECNICI ORGANIZZATIVI E FINANZIARI DA PARTE DI UN CONCORRENTE e la previsione di tale facoltà rientra nella insindacabile discrezionalità  dell’Ente appaltante (Antonio Loreto)

Il pagamento della sosta nel parcheggio è dovuto anche se è scaduta la concessione

Il giudice di pace di Palermo aveva accolto la opposizione alla ingiunzione per il mancato pagamento della sosta in relazione alla accertata scadenza della concessione per la gestione del servizio. Il Tribunale, sull’appello del Comune, aveva riformato la sentenza nella considerazione che una legge regionale aveva prorogato  tutte le concessioni di servizi scadute, disattendendo anche gli altri motivi. Di conseguenza veniva proposto dall’automobilista ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte, con la sentenza n.9125/2017,  con riferimento alla pretesa scadenza della concessione, ha affermato in primo luogo che non spetta al giudice di sindacare eventuali vizi di legittimità degli atti amministrativi in quanto la delibera di concessione per la gestione del servizio della sosta a pagamento non costituisce presupposto della violazione contestata al trasgressore, presupposto che va invece individuato nell’atto che istituisce la zona adibita al parcheggio, che fa sorgere la violazione del conseguente divieto.

Sempre secondo la Corte, la delibera di concessione della gestione del servizio non si pone in rapporto diretto con la violazione in quanto i due atti  – concessione del servizio e istituzione dell’area con obbligo del ticket – sono inseriti in iter amministrativi differenti e rispondono a diverse finalità: con la prima viene selezionato il gestore del servizio, con la seconda si impone l’obbligo del pagamento della sosta in una determinata zona, obbligo la cui violazione comporta l’irrogazione della sanzione. L’illegittimità eventuale della delibera di concessione non può riverberarsi sulla seconda, né inficiare l’accertamento.

Viene , quindi, ribadito il contenuto della recente sentenza di Cassazione n. 13659/2016  che, nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa per violazione del Codice della Strada per mancato pagamento della sosta e mancata esposizione del tagliando, ha sostenuto che il controllo del giudice  non può estendersi sino agli eventuali vizi di legittimità della delibera della giunta  comunale sulla concessione del servizio ad una impresa privata, in quanto questa non fa parte della sequenza procedimentale che sfocia nell’ordinanza ingiunzione che ha formato oggetto dell’opposizione.

Sulla doglianza relativa alla mancata segnaletica dell’ordinanza di istituzione della sosta a pagamento, la Corte ha ritenuto di uniformarsi alla giurisprudenza della stessa, al principio secondo cui l’omessa indicazione della relativa ordinanza non determina l’illegittimità del segnale, né esime l’utente dall’obbligo di rispettarne la prescrizione e, di conseguenza, non comporta l’illegittimità del verbale di contestazione dell’infrazione

Abitazione principale accatastata in due distinte unità. Problemi interpretativi.

Il passaggio dall’ICI all’IMU ha creato problemi applicativi ed interpretativi qualora la abitazione principale sia accatastata in due distinte unità immobiliari. Le previsioni del D.Lgs. 504/1992 e quelle del D.Lgs. 23/2011lasciano spazio ad una divergenza interpretativa tra l’Amministrazione finanziaria e la Giurisprudenza.  Per la Cassazione,in materia di ICI (sentenze 25902/2008; 3339 e 12269/2010) quello che conta è l’effettiva utilizzazione come abitazione principale dell’immobile complessivamente considerato, a prescindere dal numero delle unità catastali. Non importa, peraltro, che gli immobili distintamente iscritti in catasto siano di proprietà non di un solo coniuge ma di ciascuno dei due in regime di separazione dei beni. A patto che «il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono». Secondo i giudici di legittimità, una interpretazione contraria non sarebbe rispettosa della finalità legislativa di ridurre il carico Ici sugli immobili adibiti a «prima casa», confermata dalla previsione dell’esenzione totale dal 2008. Tuttavia, la tesi dei giudici di piazza Cavour si pone in contrasto con quanto affermato dal dipartimento delle Finanze del Ministero dell’economia (risoluzione 6/2002) sui presupposti richiesti per usufruire dei benefici fiscali. Il Ministero ha infatti precisato che due o più unità immobiliari vanno singolarmente e separatamente soggette a imposizione, «ciascuna per la propria rendita». Dunque, solo una può essere considerata ai fini Ici come abitazione principale. Il contribuente, per usufruire dell’esenzione, dovrebbe richiedere l’accatastamento unitario degli immobili, per i quali è attribuita in catasto una distinta rendita, presentando all’ente una denuncia di variazione. Allo stesso modo si è espresso il Ministero dell’economia con la circolare 3/2012 per circoscrivere l’esenzione Imu. Dalla lettura della norma emergerebbe che l’abitazione principale deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto, a prescindere dalla circostanza che, di fatto venga utilizzato più di un fabbricato distintamente iscritto in catasto. In questo caso, le singole unità immobiliari vanno assoggettate separatamente a imposizione, ciascuna per la propria rendita. Il contribuente può scegliere quale destinare a prima casa; «le altre, invece, vanno considerate come abitazioni diverse da quella principale con l’applicazione dell’aliquota deliberata dal comune per tali tipologie di fabbricati».

La pronuncia di legittimità ha trovato sponda anche nella giurisprudenza di merito; a tal proposito, è stato stabilito che il comune di Roma non può negare il diritto a fruire dell’agevolazione Ici a un contribuente che utilizzi più immobili, distintamente iscritti in catasto, come abitazione principale. Il contemporaneo utilizzo di più unità catastali non costituisce impedimento all’applicazione, per tutte, dell’esenzione prevista per l’abitazione principale. Per fruire dei benefi ci fi scali non conta il numero delle unità catastali, ma l’effettiva utilizzazione degli immobili complessivamente considerati come prima casa. L’importante principio è stato affermato dalla commissione tributaria provinciale di Roma, sezione XXXVII, con la sentenza 16449 del 17 luglio 2015. Lo stesso problema si pone per l’Imu e l’esenzione non dovrebbe essere disconosciuta qualora l’interessato utilizzi più immobili, ancorché l’articolo 13 del dl Monti (201/2011) prevede che l’abitazione principale sia limitata a un’unica unità immobiliare.

Secondo la prassi Amministrativa dell’Agenzia delle Entrate pero’ è sempre meglio in presenza di due unità immobiliari contigue, autonomamente accatastate, per applicare le agevolazioni Imu per l’abitazione principale  richiedere quanto prima l’accatastamento unitario. Altrimenti, una delle due sarà considerata come seconda abitazione e assoggettata a imposizione con l’aliquota ordinaria. Il vantaggio dell’applicazione dell’aliquota ridotta compensa ampiamente, quasi sempre, l’incremento della rendita. Si tratta di una conseguenza della diversa nozione di abitazione principale rispetto a quella valevole ai fini dell’Ici.  Con la recente circolare 27/E/2016. l’Agenzia delle entrate interviene per evidenziare le modalità per realizzare, a livello catastale, una “unione di fatto ai fini fiscali” di due unità immobiliari che non possono essere fuse (ad esempio perché di proprietà di due soggetti diversi); tale indicazione è utile per gestire l’eventualità in cui una famiglia possiede una abitazione principale che catastalmente è divisa e dove il marito è proprietario di una frazione di questa, mentre la moglie è proprietaria dell’altra, situazione che comporterebbe l’impossibilità di fruire dell’esenzione IMU e TASI per l’abitazione principale.

Nella circolare 27/E/2016 l’Agenzia osserva che non è, di norma, ammissibile la fusione di unità immobiliari, anche se contigue, quando per ciascuna di esse sia riscontrata l’autonomia funzionale e reddituale, e ciò indipendentemente dalla titolarità di tali unità. Tuttavia, se a seguito di interventi edilizi vengono meno i menzionati requisiti di autonomia, pur essendo preclusa la possibilità di fondere in un’unica unità immobiliare i due originari cespiti in presenza di distinta titolarità, per dare evidenza negli archivi catastali dell’unione di fatto ai fini fiscali delle eventuali diverse porzioni autonomamente censite, è necessario presentare, tramite Doc.Fa. due distinte dichiarazioni di variazione, relative a ciascuna delle menzionate porzioni. Sul punto l’Agenzia osserva che non è sufficiente richiedere ai competenti Uffici dell’Agenzia delle entrate solo l’inserimento di un’apposita annotazione negli atti catastali, senza che siano state presentate le dichiarazioni di variazione. L’Ufficio competente dell’Agenzia delle entrate, immediatamente dopo la registrazione in banca dati catastale delle menzionate dichiarazioni di variazione, provvede ad inserire, negli atti relativi a ciascuna porzione immobiliare, la seguente annotazione “Porzione di u. i. u. unita di fatto con quella di Foglio xxx Part. yyy Sub. zzzz. Rendita attribuita alla porzione di u.i.u. ai fini fiscali” – Alessio Foligno – Nicola Ricciardi

Attendibilità dei ruoli Equitalia non riscossi. Quali valutazioni fare?

L’uscita di Equitalia dal mondo della riscossione per lasciare spazio alla nuova Agenzia delle Entrate-Riscossione, comporta il passaggio di funzioni comprensivo del subentro in tutti i rapporti del precedente soggetto, come si legge nell’articolo 1 del dl 193/2016. Il tema richiama l’attenzione sullo stato delle inesigibilità della riscossione mediante ruolo, rimaste ingabbiate dalle esigenze di proroga delle attività. Proroghe che ancora impediscono di valutarne l’operato con l’attivazione delle procedure previste dall’articolo 20 del d. lgs 112/99. L’intervento sulla riscossione pubblica contenuto nel dl 193/2016 detta nuove scadenze temporali sui termini di presentazione delle comunicazioni di inesigibilità dovute dall’Agente della riscossione, finalizzate a informare l’ente impositore della improbabile realizzabilità del credito affidatogli. E’ un tema di grande rilievo che riguarda l’affidabilità dei titoli esecutivi e la conseguente capacità di spesa dell’ente impositore. Il passaggio alla contabilità armonizzata ha comportato per i comuni la completa rivisitazione delle regole di accertamento e la necessità di stanziare in apposito fondo le risorse a copertura del rischio di mancato incasso. A maggior ragione, all’ente impositore servono risposte in tempi rapidi. Tempistiche che nella riscossione a mezzo ruolo sono state dilatate nel tempo con una disciplina che non tiene conto delle esigenze di incasso

Ddl biotestamento, arriva il divieto di accanimento terapeutico

Un emendamento approvato in commissione stabilisce il diritto del paziente di abbandonare le terapie. Nel ddl biotestamento entra il principio del divieto dell’accanimento terapeutico e il conseguente riconoscimento del diritto del paziente di abbandonare totalmente la terapia. La modifica è contenuta in un emendamento del presidente della commissione Affari sociali della Camera Mario Marazziti che ha ottenuto parere favorevole dalla commissione ed andrà votato dall’Aula.
In base al testo, “il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative”.
Il testo risultante dall’emendamento Marazziti prescrive, inoltre, che “nel caso di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili e sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua o il rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.

Anci: «Tasse locali dovute, la norma va contro la Cassazione»

Posizioni ormai consolidate della Cassazione a favore dell’imponibilità delle piattaforme petrolifere sarebbero cancellate da una norma di “interpretazione autentica” che sembrerebbe abolire con un colpo di spugna le pretese riconosciute ai Comuni.

La nuova interpretazione
La norma, secondo notizie di stampa, sarebbe inserita nel decreto legge di correzione dei conti pubblici e dichiarerebbe non imponibili le piattaforme in quanto queste non costituirebbero fabbricati iscrivibili in catasto. Ora per allora. Tutto il contrario di quanto sostenuto ripetutamente dalla Cassazione. Si tratta di un’interpretazione certamente foriera di ulteriore contenzioso, che mette a rischio la posizione dei Comuni sedi di piattaforme petrolifere, impegnati nella definizione, spesso bonaria, delle somme dovute dalle società petrolifere per l’Ici e l’Imu del periodo 2011-2016.
In molti casi, infatti, sono state le società stesse a rivedere la propria posizione e a pagare ai Comuni quanto dovuto in via stragiudiziale, in altri casi invece sono in corso di pagamento le somme non corrisposte in forza di provvedimenti giurisdizionali. Si tratta, pertanto, di somme che sono già acquisite o considerate nei bilanci degli enti.
Disconoscere a colpi di interpretazioni autentiche un diritto e più volte confermato è un inaccettabile atto di forza che stravolge puntuali pronunciamenti della Cassazione e mette in grave difficoltà non solo la certezza nell’applicazione delle imposte comunali sugli immobili, ma anche gli equilibri finanziari di decine di enti.
La questione vale milioni di euro almeno 300 destinati a Stato, Regioni e Comuni su tutta Italia e riguarda molti Comuni costieri.
Auspichiamo che tali notizie siano smentite e che si possa confrontarsi come Anci chiede da tempo per definire una soluzione normativa ragionevole

Morire diventa un diritto (ma il medico può rifiutarsi)

Il paziente avrà il diritto di abbandonare le cure, anche di rifiutare l’idratazione e la nutrizione artificiale, e ricorrere alla sedazione palliativa profonda.

No all’accanimento terapeutico, dunque, ma anche «nessun abbandono terapeutico», sottolinea la relatrice, Donata Lenzi, Pd. E il medico potrà rifiutarsi di «staccare la spina» che tiene in vita il malato.

Emendamento dopo emendamento della commissione Affari sociali, con il governo neutrale che si «rimette all’aula», sta prendendo vita il provvedimento sul testamento biologico che oggi dovrebbe concludere il suo iter alla Camera e passare al Senato per l’approvazione definitiva. L’esame del ddl – iniziato lo scorso aprile con un’inedita maggioranza composta da Pd, M5S, Mdp e Sinistra italiana – è più che mai attuale dopo i recenti casi di eutanasia assistita in Svizzera, anche se la Lega aveva chiesto di invertire l’ordine dei lavori per cominciare dalla legittima difesa.

Un passaggio chiave è stato l’eliminazione del sesto comma dell’articolo 1, che impediva l’abbandono terapeutico in caso di rifiuto del trattamento sanitario indicato dal medico, con l’approvazione di un emendamento al ddl sulle disposizioni anticipate di trattamento, passato a larghissima maggioranza. Adesso il medico sarà tenuto a rispettare la volontà espressa del paziente di rifiutare le cure senza per questo incorrere in responsabilità civili o penali, mentre il malato non potrà esigere trattamenti sanitari «contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico assistenziali». Viste le polemiche suscitate dall’emendamento, la relatrice è intervenuta per spiegare la ratio della modifica: «Se il paziente ha chiesto che le cure vengano interrotte, tutti devono rispettare questa decisione e quindi per il medico non ci sono conseguenze sul piano penale. Anche la libertà del paziente, però, incontra dei limiti, perché in questa proposta di legge non parliamo solo di fine vita, idratazione e nutrizione ma del consenso informato relativo a tutto, ad esempio a cure e farmaci che si possono acquistare, a terapie che vanno contro il dato scientifico, come i casi Stamina o la «cura Di Bella». Il tema delle cure palliative e quello del fine vita sono stati spostati in un articolo a parte. L’emendamento approvato stabilisce che il medico si debba astenere dall’accanimento terapeutico, ora definito «ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure nella fase finale della vita», e si prevede esplicitamente il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua quando necessario per controllare dolori insopportabili.

L’approvazione dell’emendamento che riconosce al medico la possibilità di non rispettare la volontà del paziente che voglia interrompere il trattamento, ha rotto l’asse Pd-M5S che aveva finora caratterizzato l’iter della legge. I pentastellati hanno votato contro perché «introduce una forma di obiezione di coscienza». L’articolo 1, uno dei capisaldi del provvedimento, ha ottenuto così il via libera alla Camera. Dispone che la legge sul biotestamento (che dovrà essere adottata anche dalle cliniche private) tuteli il diritto alla vita, alla salute, ma anche il diritto alla dignità e all’autodeterminazione, e prevede che nessun trattamento possa essere iniziato o proseguito se privo del consenso della persona interessata. Il consenso informato è l’atto fondante della relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente ed è espresso in forma scritta. Nel caso in cui le condizioni fisiche del malato non lo permettano, verranno utilizzati strumenti informatici di comunicazione, videoregistrazioni o altri dispositivi che consentano di esprimerlo. In serata, ieri, sono cominciate le votazioni degli emendamenti all’articolo 2 sul consenso informato di minori e persone incapaci. Ne è passato uno nel quale si spiega che devono essere messi in condizione di esprimere la loro volontà.

Un nuovo decreto per la riqualificazione degli edifici scolastici

Sono 293 gli interventi di manutenzione straordinaria e messa in sicurezza delle scuole che potranno essere finanziati con i 238 milioni di euro previsti dal decreto firmato la scorsa settimana dal ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli. Si tratta di risorse che rientrano nell’ambito dei cosiddetti mutui Bei agevolati per l’edilizia scolastica. Il decreto verrà ora firmato dal ministro dell’Economia e da quello delle Infrastrutture. Il finanziamento si somma ai 905 milioni di euro messi in campo nel 2015, sempre nell’ambito dei mutui Bei, e spesi nel corso del 2016. Il primo finanziamento ha consentito di effettuare 1.215 interventi, di cui 721 già conclusi. Con le economie di spesa relative al finanziamento del 2015 sono stati autorizzati, alla fine dello scorso anno, altri 300 interventi che partiranno nei prossimi mesi.

Lo scorso 6 aprile il Miur, insieme alla Struttura di Missione per l’edilizia scolastica di Palazzo Chigi, ha presentato presso la Banca europea per gli investimenti (Bei) il nuovo sistema di monitoraggio degli interventi di edilizia, messo a punto per tenere sotto controllo in modo costante l’andamento dei cantieri e della spesa. Un monitoraggio ritenuto dalla stessa Banca europea per gli investimenti la migliore pratica a livello europeo in materia di edilizia scolastica

Vai a lavoro in bici? Lo stato ti paga, succede nell’Unione europea

Abbiamo recentemente parlato in modo approfondito dell’iniziativa Cycle to Work del Regno Unito, che aiuta i lavoratori ad acquistare nuove biciclette da usare per andare al lavoro. Ma Esistono altri modi per incentivare le persone ad andare in bici al lavoro. Qualche tempo fa ha fatto il giro del web la proposta francese di pagare i ciclisti a seconda della distanza coperta in bici; pochi sanno però che questa proposta deriva da un’iniziativa belga attiva fino dal 1999.

Se vai al lavoro in bicicletta, infatti, in alcuni Paesi europei hai diritto a un incentivo. Cresce, dunque, il numero di paesi in Europa che stimolano il bike to work coi cosiddetti rimborsi chilometrici. Un manciata di euro, a seconda delle distanze  pedalate: in Belgio, ad esempio, sono 0,23 i centesimi che i lavoratori in bicicletta guadagnano ogni mille metri. Un bottino che ingrossa le tasche oramai del 9% della forza lavoro di tutto il paese. Oltre 400mila i belgi, secondo quanto riporta ECF (European Cyclists’ Federation), che usufruiscono di questi incentivi economici.

Un grande risultato ottenuto a un piccolo prezzo: 93 milioni di euro il costo sul bilancio, “appena il 2% di quanto si perde ogni anno, in termini di entrate fiscali, a causa della sotto-tassazione delle auto aziendali”, sottolinea l’Ecf.

Incentivi alle imprese per l’acquisto di auto aziendali che valgono, secondo le stime della Commissione europea, 4,1 miliardi di euro l’anno.

Il vicino Lussemburgo ha approfittato della recente riforma fiscale per inserire incentivi per le due ruote. Risultato: i contribuenti possono detrarre fino a 300 euro dalla imposta sul reddito per l’acquisto di una nuova bicicletta, tradizionale o a pedalata assistita, mentre le imprese possono fornire ai propri dipendenti una bicicletta, sia per uso lavorativo che privato, prestazione completamente esentasse.

Nel 2015 anche la Francia ha introdotto un sistema di rimborso chilometrico sul modello belga per le aziende private, mentre è in fase di studio il decreto per estendere l’incentivo ai dipendenti pubblici. Unico limite, che renderebbe l’incentivo economico meno appetibile rispetto ai colleghi belgi, il tetto annuo fissato a 200 euro per il rimborso.

Infine, l’Ecf dedica spazio al caso italiano “dove a muoversi non è la politica nazionale, bensì i singoli comuni”, sottolinea la Fiab (Federazione italiana amici della bicicletta). L’Ecf cita infatti Bari dove si parla di “buoni mobilità” per i dipendenti e gli studenti che utilizzano la bici per gli spostamenti quotidiani e che possono essere spesi per l’acquisto di una nuova moto o per gli abbonamenti di trasporto pubblico, per esempio.

A questo, la Fiab aggiunge il progetto toscano di Massarosa: il comune in provincia di Lucca è stata la prima a pensare ad un bando, riservato a 50 residenti lavoratori, per un contributo allo stipendio in base a quanti chilometri si pedalano ogni giorno nel tragitto casa lavoro.